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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




IV. Scenografie logoclaste.
Barthes e Benjamin di fronte all’immagine
di Giuseppe Crivella

16 febbraio 2016




Abstract: the study analyzes the field of the images in the late phase of the thought of Roland Barthes and Walter Benjamin. Despite the distance of the theoretical initial settings, the paths of the two authors reveal a growing convergence due to the fact taht both intercept in teh image a device for sabotage of worn practices perceptual and cognitive of the subject.

Keywords: Roland Barthes, Walter Benjamin, Visual Studies, Apparatur, Mathesis Singularis.


I percorsi che conducono Benjamin e Barthes a confrontarsi con la multiforme sfera di fenomeni afferenti alla dimensione dell’immagine sono estremamente differenti. Per il pensatore tedesco il primo incontro cruciale avviene di certo negli anni ’20, durante le intense e sofferte fasi di stesura del lavoro sul Dramma barocco. È stato Rolf Tiedemann ad aver ricostruito questo momento così importante per lo sviluppo successivo di tutta la riflessione del berlinese: nella sua raccolta del 1973 Studien zur Philosophie Walter Benjamins egli in più punti delle sue analisi mette in luce quanto le dinamiche di significazione legate all’allegoresi aprano dinanzi a Benjamin un nuovo orizzonte di problemi in buona parte orbitanti attorno all’universo dell’immagine, il quale tuttavia verrà attentamente esplorato da Benjamin soprattutto con il Passagenwerk e con dei saggi isolati, come ad esempio quello dedicato a Proust. [1] Ecco come Tiedemann verso la fine del volume compendia tale stato di cose:
le immagini dialettiche [dell’opera sui Passages] sono immagini autenticamente storiche e non sono affatto delle immagini arcaiche. Esse posseggono un indice storico che però non le ascrive unicamente ad una certa epoca determinata ma fa sì che esse divengano piuttosto leggibili solo a partire da una certa epoca. Tale divenire-leggibile è il punto critico ravvisabile in seno a queste immagini […]. L’immagine dialettica del Passagenwerk è l’Idea del Dramma barocco giunta a maturazione. [2]
Che l’immagine stesse per assumere un ruolo sempre più preponderante nella riflessione del berlinese è evidente anche da un altro aspetto: basta vagliare brevemente la bibliografia critica che Benjamin cita in nota alla sua dissertazione sul Trauerspiel per capire quanto la ricostruzione dei problemi dell’immagine fosse capillare e oltrepassasse il semplice gusto documentario, andando a toccare invece direttamente e per la prima volta in modo così pregnante un punto sensibile della sua riflessione ancora non del tutto esplicitatosi. Non deve stupire allora che egli risalga addirittura fino al primo trattato di filosofia delle immagini, ad opera di un gesuita francese di nome Menestrier autore di una Philosophie des images edita nel 1683. [3]

Per quanto riguarda Barthes stabilire il momento in cui l’immagine inizia ad imporsi alla sua attenzione sembra essere più agevole. Esso dovrebbe collocarsi più o meno negli anni 㥎, allorché egli inizia a interessarsi in misura crescente alla fotografia e al cinema. Ma in realtà non è così. Anche per Barthes il tramite riposto e inapparente che lo porta ad analizzare l’immagine è la letteratura: si prendano, a sostegno di tale ipotesi, i saggi consacrati a Robbe-Grillet degli anni ’60, raccolti poi in Essais Critiques: le precise disamine che egli sviluppa hanno tutte alla radice un elemento che stringe fortissimi legami con l’immagine, a tal punto che i romanzi di Robbe-Grillet vengono letti come montaggi devianti di fotogrammi instabili che non smettono di scivolare l’uno sull’altro, di accavallarsi, di sconfinare l’uno nello spazio grafico dell’altro fino ad una sorta di mobile plastica figurativa che scompone i luoghi, le identità, le situazioni. Naturalmente Robbe-Grillet non è l’unico ad essere analizzato con questo formidabile filtro esegetico; più o meno una metodologia affine si trova messa in campo anche per Bataille e la sua Histoire de l’œil in cui Barthes riconosce come modello specifico della tecnica narrativa dell’autore la legge dell’immagine surrealista che disarticola [4] le associazioni tradizionali di parentela tra i termini prelevando ciascuno di essi da catene semantiche e linee sintagmatiche differenti. L’effetto è quello di un tremito del senso che porta la letteratura al di fuori dell’ambito propriamente linguistico per farla deflagrare in un campo di sviamenti della significazione che solo più tardi riconoscerà nella immagine — foto/cinematografica — il proprio terreno elettivo. Più o meno sono note a tutti le osservazioni che Barthes dedicherà a questi processi di significazione consegnate nel volume che sintetizza meglio di tutti tale transizione, ovvero l’Obvie et l’obtus, nel quale l’autore raccoglie i suoi saggi su ciò che esso denomina arts dioptriques, [5] mentre forse meno conosciute sono le riflessioni che Barthes elabora sempre in merito all’immagine verso la metà del 1978 — cioè più o meno nello stesso periodo in cui stava raccogliendo i materiali per La chambre claire — e presenti nell’ultimo scritto dello studio su Sollers, L’oscillazione, in cui egli si esprime così:
Sollers vuole evitare che l’immagine si rapprenda. Insomma tutto si gioca non al livello dei contenuti, delle opinioni, ma delle immagini: è l’immagine che la comunità vuole salvare sempre […], perché è l’immagine il suo nutrimento vitale e questo in misura sempre crescente: sovrasviluppata, la società moderna non si nutre più di credenze (come un tempo), ma di immagini. Lo scandalo sollersiano deriva dal fatto che Sollers si impegna nei confronti dell’Immagine, sembra voler impedire in anticipo la formazione e la stabilizzazione di ogni Immagine [6].
Va detto inoltre che tale saggio su Sollers si colloca all’interno della produzione tarda di Barthes come un vero e proprio campionario dei motivi e dei temi che negli ultimi cinque anni di vita del grande critico letterario avrebbero occupato tutta la sua attenzione e il suo lavoro. Tra di essi svetta la contestazione del principio rappresentativo di certa letteratura. In uno scritto anteriore di cinque anni all’Oscillazione infatti Barthes recupera in parte le sue analisi sulla infrazione delle catene associative svolte nel testo su Bataille per applicarle alla scrittura sollersiana: ancora una volta l’immagine spodesta la centralità del segno linguistico erodendo dall’interno quella tirannia del significato vista e vissuta dall’autore come l’impostura del senso acquisito. Destituire la rappresentazione per Barthes e Sollers significa però ridare al segno il suo giusto peso referenziale, consiste cioè nel ridisporre all’interno del linguaggio la sostanza sensuale delle cose, caricandolo di una tumescenza leggera ma insopprimibile. A qualche anno di distanza da La chambre claire Barthes pertanto sembra già alludere qui a quel «risveglio dell’intrattabile realtà» [7] che chiuderà lo scritto sulla fotografia.

Se torniamo un attimo allo studio di Benjamin sul Trauerspiel possiamo constatare che valutazioni affini sono ravvisabili anche presso il pensatore berlinese. Tralasciando qui i passaggi sul rebus, vorremmo qui soffermarci piuttosto sulle due sezioni della seconda parte dedicate rispettivamente alla enucleazione esplicita di una teoria delle immagini barocche e ad una messa a punto degli Elementi di una teoria del linguaggio barocco. [8] A proposito di alcuni drammi di Harsdörffer Benjamin ad esempio si esprime in questi termini:
dalla teologia alla filosofia della natura e dalla morale giù giù fino all’araldica, al poema d’occasione e al linguaggio amoroso il repertorio dei requisiti intuitivi è illimitato. Per ogni nuova idea il momento dell’espressione coincide con una vera e propria eruzione di immagini il cui effetto è che la massa delle metafore si presenta caoticamente sparpagliata […]: «universa rerum natura praebet huic philosophiae (imaginum)». [9]
Deprompta symbola chiamerà poco oltre Benjamin, prendendo l’espressione in prestito da Menestrier, questi segni ambigui, frutto di una ibridazione ostinata e radicale tra la compagine propriamente linguistica e la dimensione di immagine che in essi affiora in modo sempre più perturbante, a tal punto che la Philosophia imaginum assurge quasi a disciplina-madre da cui far discendere tutte le altre scienze, sorta di paradossale succedaneo della teologia — divenuta anch’essa ancillare alla emblematica — in un mondo dominato da quella dilazionante dilatazione della trascendenza [10] dove l’uomo, privo ormai di ogni escatologia, si sente trascinato verso una cataratta mentre del metafisico non restano che vestiboli in rovina. È però nelle pagine dedicate alla teoria del linguaggio barocco che è possibile trovare qualche analogia sorprendente con quanto abbiamo detto in merito a Barthes. In questa sezione infatti il filosofo berlinese nota come i processi di allegoresi conducano in molti casi i pensieri dei personaggi a dissolversi in immagini, in serie di immagini incontrollabili, tanto che l’autore giunge ad osservare quanto queste liriche siano cariche di sfarzo materiale, per poi chiosare:
al dramma barocco tedesco [...] non è dato dar voce al suo elemento geroglifico. Perché la sua scrittura non si trasfigura in suono; anzi, il suo mondo resta del tutto autosufficiente, intento a dispiegare la propria veemenza. La scrittura e il suono restano contigui, compresi in una polarità carica di tensione [...].
La discrepanza tra il geroglifico significativo e l’inebriante suono delle parole costringe lo sguardo, quando il compatto massiccio del significato delle parole si dirompe, a penetrare nella profondità del linguaggio [...]. La parola ha una lussuria estranea al mondo, perduta dentro l’immagine. [11]
L’immagine erompe dall’interno del linguaggio stesso, il quale è così sottoposto ad una pressione interna che lo porta a dischiudersi in una sorta di complessa trama geologica del proprio farsi e disfarsi, sempre sul limite tra la sua opaca ma originaria densità sonora e la sua propulsione figurale a dissociarsi in un profluvio di designazioni che rimandano, antiteticamente rispetto alla propria natura, ad un mondo di oggetti concreti colti però in una sorta di attonita fissità minerale: in tal senso ogni cosa, potremmo dire citando Cysarz, si trova laminata a immagine [12].

In Barthes e Benjamin, attraverso un movimento duplice e sottilmente ambiguo, linguaggio e immagine, scrittura e figura vengono colti in uno spostamento incrociato dei rispettivi assi di significazione, i quali entrano in contatto generando una tensione che sfocia in un sussulto affine ai contraccolpi di una sincope grazie alla quale la parola si trova trasfigurata in cosa, e il significato in un brulicare di visioni quasi prive di soggetto percipiente.

Dal segno scritto vediamo quindi emergere una eruttiva immaginazione figurale che scompagina la grammaticalità del portato linguistico, così che la realtà non si trova più ad essere semplicemente significata da un codice ad essa estraneo, ma questa stessa realtà si assiepa dinanzi noi e dalla sua fosca compattezza un occhio invisibile a tratti affiora con l’intento sinistro e enigmatico di osservarci mentre lo fissiamo senza vederlo, ipostasi di quello «sguardo con cui le opere d’arte guardano l’osservatore» tanto caro ad Adorno. [13]

Ma se appaiono diversi i percorsi che conducono Benjamin e Barthes all’immagine, affini ci sembrano gli esiti a cui essi pervengono. Se le rapide osservazioni svolte finora sono corrette, non deve sorprendere in alcun modo il fatto che i due pensatori dedicheranno i loro ultimi scritti all’immagine, utilizzata come un possente e polimorfo dispositivo critico che essi utilizzano per uscire dai loro stessi procedimenti analitici messi a punto negli anni precedenti. È per questo motivo che sia Barthes che Benjamin consegnano le loro estreme riflessioni sulla Storia, sulla letteratura e la critica letteraria, sull’arte come nucleo di contestazione endogeno alle forze che la generano, sulla società, il potere e il politico ad uno studio sull’immagine, trasvalutata in una forma aporetica di razionalità che riesce a criticare e ad erodere dall’interno la ragione strumentale senza però sottrarlesi.

Per Benjamin sono due i testi in cui tale impresa viene tentata: la Piccola storia della fotografia e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [14], composti intorno al 1931 la prima e a cavallo tra il 1936 e il 1937 la seconda, con vari rimaneggiamenti successivi.

È difficile dire quale sia il nucleo teorico portante di questo testo, per una serie di ragioni: in primis perché Benjamin non vuole proporre una ricostruzione storica né del concetto di riproducibilità, nel della nozione controversa e instabile di opera d’arte; in secundis perché a Benjamin interessa immediatamente vedere come la messa in campo di determinate tecniche di riproduzione artistica provochino una destabilizzante torsione gnoseologica che colpisce alla radice il nostro modo di intuire e di percepire il mondo.

Come è noto Benjamin fin dal lavoro sul Trauerspiel è sempre stato interessato a stabilire una linea di continuità tra il fatto estetico e quello conoscitivo; la erkenntniskritische Vorrede che apre il Dramma barocco ha la precisa funzione di svelare i riposti spessori teoretici che abitano la dimensione artistica. Nel saggio del ’37 tale presupposto si conserva in pieno, ma non si trova più raccolto ed esplicitato all’inizio della trattazione, ma piuttosto lo vediamo presente in essa in uno stato di continua perfusione che lo rende tanto più fecondo e dinamico quanto meno riusciamo a focalizzarlo con chiarezza.

È proprio per questo motivo che Benjamin già dal terzo paragrafo allude al fatto che il medium in cui si organizza la percezione sensoriale umana ha per forza di cose uno sfondo e un radicamento storici e che pertanto ad ogni vicissitudine storica di rilievo subentra necessariamente «un’altra percezione». [15] Lo strumento linguistico, la codificazione propria della scrittura è ormai scomparsa. Immagine, percezione, sguardo occupano tutti il campo della riflessione. Come farà Barthes circa cinquant’anni più tardi, Benjamin accede qui ad una fenomenologia che non ammette mediazioni, inizia cioè a muoversi liberamente sulla soglia sfrangiata e nomade di una fenomenalità del mondo, del reale e delle cose anteriore ad ogni concettualizzazione, ad ogni ragnatela categoriale [16] che possa preformare la nostra visione degli oggetti. Sul fatto quindi che la invenzione della fotografia costituisca la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario Benjamin non ha alcun dubbio [17] e lo afferma a chiare lettere verso la fine del quarto paragrafo in limine a celebre passaggio sulla dimensione cultuale dell’immagine.

Ma in che modo queste due nozioni vengono allora a saldarsi? Il pensatore berlinese vede nella fotografia il momento in cui il valore della esponibilità subentra a quello cultuale, ma tale sostituzione non rappresenta una degradazione dell’immagine, ma piuttosto un suo potenziamento, una imprevedibile trasvalutazione del valore espositivo, che supera quello cultuale in forza del quale una fotografia esibisce uno spazio di apparizione che si impregna di una virtualità rivelativa di cui forse nessun quadro è mai stato capace. Benjamin porta come esempio le strade vuote di Parigi catturate dagli scatti di Atget, luoghi intrisi di una sospensione metafisica in cui l’autore sembra ritrovare i caratteri di quell’insaturabile e angosciante Tiefsinn [18] che ossessionava la contemplazione barocca degli emblemi.

Alla proporzione analogica proposta nel quinto paragrafo per cui culto: dimensione magico-rituale = esposizione: dimensione di fruizione [19] Benjamin apporta immediatamente delle rettifiche che finiscono con il contestare quella equivalenza: l’esposizione della fotografia devia dall’asse della semplice fruizione per caricare l’immagine — e l’oggetto ritratto — di un alone inquietante, di una Stimmung che porta ad evidenza un irriducibile fondo di densa invisibilità contenuta nella realtà e che trasforma quest’ultima nel signacolo inaspettato di una folgorante rivelazione profana. L’immagine fotografica non sovverte violentemente e risolutamente il sistema di rapporti tra il valore cultuale, di custodia sacrale, e quello espositivo, quale presunta matrice di desacralizzazione. Essa trasforma pertanto l’esposizione nella manifestazione di un oggetto avvolto in una sfera di presentazione quasi mistica. Ma la rivoluzione dell’immagine non si limita a questo. La fotografia — solo il primo passo, poiché è col cinema che si compie definitivamente quella transizione epocale che agli occhi di Benjamin aspetta ancora d’essere degnamente valutata, ecco perché quindi in modo impeccabile egli può notare: «ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale erano un gioco per bambini in confronto con quello che il cinema avrebbe suscitato». [20]

Benjamin fa precedere le considerazioni sull’Apparatur cinematografica da una serie di citazioni tratte da discorsi, scritti, interviste di Abel Gance, Séverin-Mars, Arnoux e Max Reinhardt, registi, attori, uomini di teatro che colgono a livello intuitivo le potenzialità del nuovo medium, ma non riescono a dare a tali intuizioni un ordine argomentativo lineare. Alla luce di ciò Benjamin decide di smontare pezzo per pezzo le capacità espressive del congegno cinematografico, al fine di metterne in mostra non solo il funzionamento, ma anche le potenzialità di asservimento o emancipazione delle masse a cui i prodotti di quel congegno sono esplicitamente rivolte. [21]

È a partire quindi dall’ottavo paragrafo che egli entra nel dettaglio dell’esame di ciò che in queste pagine giustamente famose viene designato col termine tecnico di Apparatur, intendendo con ciò il congegno di riproduzione della realtà in grado di inaugurare quel Wahrnehmunswandel che regge e scandisce tutto il discorso benjaminiano. È pertanto la rivoluzionaria e sconvolgente tecnica cinematografica del montaggio [22] ad occupare immediatamente la scena, esaminata da una duplice prospettiva: — Dinamica: il montaggio pluralizza l’occhio, lo spodesta definitivamente dal suo luogo naturale facendolo felicemente implodere in una caleidoscopica molteplicità di sguardi erratici che si disperdono come un vasto pulviscolo di visioni anarchiche raccordabili però lungo una raggiera che si muove e si svolge a spirale su se stessa. È molto probabile che nel affrontare questo aspetto Benjamin avesse come esempio eclatante di tale stato di cose le opere di Vertov:
poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. [23]
— Scompositiva: la percezione non registra più il presenza del mondo secondo un regime stabile e gerarchizzato di inquadrature; essa lo attraversa, lo trapassa, ne solca l’addormentata pesantezza scompaginandola in un continuo gioco di riassestamenti ottici e dissesti cognitivi che traducono la realtà in una intelaiatura discontinua e vibratile di immagini ove accostamento e slittamento appaiono quali cardini intorno a cui lasciar avvitare la ratio propria della Apparatur. Se prima il punto di riferimento poteva essere Vertov, in questo caso è Ejzenštejn [24] a rappresentare il modello elettivo:
[il cinema] porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti «che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali». Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente. [25]
Grazie a questa duplice lettura Benjamin può proporre a buon diritto quella celebre analogia del regista-chirurgo visto in opposizione alla figura e all’opera del mago associato invece al pittore. Ecco presentarsi allora un’altra formidabile equivalenza: mago: pittore = chirurgo: operatore cinematografico:
nel momento decisivo il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore penetra invece profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono profondamente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova. [26]
La vocazione mimetica dell’arte riceve così un colpo durissimo. L’Apparatur, scomponendo il reale tramite il montaggio, smonta i processi di processi di pensiero propri del soggetto, ne oggettiva prima e ne sovverte poi le statiche pratiche percettive, facendo dell’arte una sorta di inaspettata protesi gnoseologica grazie alla quale l’immagine del mondo da essa offerto all’uomo non è più lo spento riflesso del reale ma uno spaccato continuamente contestato e riplasmato del nostro statico e fin troppo facilmente manipolabile schematismo cognitivo. L’Apparatur brilla in seno a questo come un ordigno silenzioso e puntiforme, che disloca lo sguardo facendone un punto di vista situato non più in posizione frontale rispetto al mondo, ma sul margine mobile del campo percettivo del soggetto, il quale non smette più di essere travagliato dell’interno dal sospetto che ogni immagine oscilli tra il precipitato tranquillizzante di una cosmesi ideologica operata sul dato bruto e una la manifestazione pura di una realtà selvaggia che trovi nell’esibizione del proprio caos il momento compiuto della sua intollerabile autenticità. Ecco si esprime ancora Benjamin a questo riguardo nella Piccola storia della fotografia in relazione agli scatti di Blossfeldt:
la fotografia dischiude gli aspetti fisiognomici di mondi di immagini che abitano il microscopico, avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un nascondiglio nei sogni ad occhi aperti, e ora diventati grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile storica [27]. Così, con le sue straordinarie fotografie di piante, Blossfeldt ha reperito in certi steli innervati le forme di certe colonne arcaiche, nelle forma di certe felci il bastone pastorale, nella gemma del castagno e dell’acero (ingrandita dieci volte) certi alberi totemici, nel cardo dei lanaioli la crociera gotica [28].
Ma soprattutto è solo a questo punto che possiamo comprendere per quale motivo il valore d’esposizione con l’avvento della fotografia e del cinema sopravanza definitivamente il valore cultuale. La distanza veicolata da quest’ultimo per sommo paradosso è recuperata proprio dal primo, nel momento in cui la realtà, la cosa, l’oggetto, la porzione di mondo offerta e presentata dall’immagine cinematografica si sottrae ad ogni manipolazione umana e ad ogni misura antropomorfa, recalcitra furiosamente dinanzi ad ogni tentativo di reificazione/oggettivazione per sfoderare una imponderabile molteplicità di aspetti, tratti, caratteri e sfaccettature che non solo contestano lo stolido stato di stagnazione delle nostra classificazioni teoriche, ma inducono a sovvertire queste richiamando il soggetto ad una continua attività di sorveglianza e rimodulazione critica delle proprie cornici concettuali.

Con Barthes lo scenario sembra mutare. In Benjamin una strana miscela esplosiva a base di sociologia dell’arte, psicologia delle masse e estetica fenomenologica dà luogo ad un preciso affondo speculativo culminante in un quadro storico dell’attualità potente e convulso. Nulla di tutto ciò ne La chambre claire. In essa troviamo in primis le movenze composte e appena accennate di un accorto ripiegamento intimistico dell’autore sul proprio recente dolore — la dipartita della madre amatissima — ma si tratta di una sfera intima particolare, poiché in essa la presenza ingombrante del soggetto è stata evacuata, chirurgicamente privata di ogni greve sostanzialità.

L’immagine affiora in modo quasi casuale dalla sua scrittura, carica di una pensosa sonnolenza; reca in sé una risonanza che ha qualcosa dell’onirico, simile al portato discreto e timidissimo di una involontaria flocculazione mnestica dal seno della quale essa fiorisce con le fattezze di una fragilissima ghirlanda di evocazioni, ricordi, citazioni fugaci e episodiche.

Come un corpo estraneo incuneatosi sinistramente nella memoria, l’immagine fotografica comunica nello stesso tempo uno strano desiderio ontologico — quello della presenza fisica, concreta, esistente della cosa ritratta — e un disorientato senso di soffusa allucinosi. Essa elude inoltre ogni classificazione, non ammette alcun incasellamento di natura empirica, retorica o estetica, ma piuttosto si dispone trasversalmente lungo questi tre assi facendoli saltare uno dopo l’altro, conducendoli ad una sorta di delicato tracollo in forza del quale ciò che emerge dall’immagine è una deissi del vuoto, l’allestimento improvviso di uno spazio “bastardo” — lacanianamente sospeso tra l’immaginario, il simbolico e il reale — ove la figura rappresentata è una fosforescenza inquieta e inesorabile, ora affine ad un significante linguistico che ammutolisce nella propria opaca fisionomia, ora simile ad una presenza che comunica unicamente se stessa, tautologica manifestazione di una realtà che nell’atto di esporsi come tale finisce con l’esaurirsi senza poter tuttavia esprimere nulla.

Se la fotografia appare quale chambre claire, prima di essa bisogna supporre necessariamente una camera obscura — che per Barthes è senza dubbio quella della memoria — la quale funziona come uno spazio intensamente germinale, forse aurorale, simile ad una pausa obliqua e innaturale che porta il tempo ad inarcarsi, lasciando che l’identità attuale del soggetto entri in metamorfosi con il proprio passato, subisca delle variazioni in grado di farlo fluttuare appena sotto la sua pelle, traducendolo negli accidenti di una mimica tortuosamente mercuriale e grazie alle quali il corpo stesso si riduce ad un valore-zero, riassumendo la plasticità generativa della matrice paradigmatica di una sintassi anatomica ancora inattuata [29].

Ma tutto ciò non dura che un attimo, l’inarcatura del tempo prodotta nell’immagine e con l’immagine è solo una sospensione simulata: la chose raffigurata nella foto — il proprio volto, il proprio corpo, il proprio sguardo, il proprio aspetto — è in realtà condannata a rassomigliarsi per sempre, ad aderire senza resto alla monotonia di una identità momentanea e passeggera, che però lo scatto al magnesio inchioda per sempre proiettandola nella peritura eternità dei ritratti fotografici. Non è un caso quindi che per Barthes nell’immagine venga a sedimentarsi un’esperienza anfibia di se stesso: da una parte il processo irresistibile di una dissociazione ambigua della consapevolezza della propria identità [30] e dall’altra la trasformazione ineluttabile di se stesso nel «Tutto-Immagine, ovvero nella morte in persona». [31]

La riflessione di Barthes a questo punto prende uno strano andamento: si allontana dagli assunti iniziali, legati allo sviamento dell’identità perseguita grazie ad una sorta di delirata autoscopia, per reinquadrarsi in un approccio teorico più distanziato, più analitico, più rigoroso. Ed è qui che troviamo il primo contatto con Benjamin: anche Barthes expressis verbis ravvisa nella fotografia una vocazione chirurgica [32] nei confronti del reale. Anche Barthes inoltre si dirige chiaramente verso una fenomenologia del particolare, denominandola Mathesis Singularis, [33] poiché afferente ad una forma di conoscenza che privilegia il dettaglio, elemento doppiamente isolato: in primis rispetto al contesto originario da cui lo strappa lo scatto, in secundis rispetto al campo complessivo dell’immagine da cui lo distacca la specifica tecnica di lettura della foto che Barthes mette a punto in queste pagine e che, come è noto, è scandita dalla oppositiva trazione binaria di Studium e Punctum. [34]

Dal momento che a questa coppia di concetti sono stati dedicati numerosi saggi, [35] eviteremo di soffermarci su di essi, tanto più che il nostro interesse qui non si appunta su tale regola strutturale [36] ma piuttosto deve focalizzarsi su quella eidetica dell’immagine fotografica a cui Barthes fa esplicito riferimento [37] chiamando in causa per due volte la fenomenologia, per lo più nel suo côté francese, rappresentato da Lyotard. Tale eidetica è interessante perché nasce da uno sforzo di pensiero che alquanto paradossale, dal momento che essa è chiamata ad appuntarsi unicamente sulle manifestazioni elettive di una contingenza pura, intrattabile, molesta, revulsiva, che non ammette e non sopporta generalizzazioni e che quindi richiama in pieno la necessità di quella Mathesis Singularis appena evocata. Ancora una volta non siamo lontani da Benjamin: se Barthes parla di inarcatura del tempo, di Mathesis Singularis, di apparizione di un dettaglio intrattabile, Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia aveva già notato tutto questo scrivendo:
se si contempla l’immagine di Dauthendey [vediamo che] la donna sta lì, accanto [al marito] che la sostiene, ma lo sguardo di lei lo oltrepassa, risucchiato da una lontananza colma di sciagure. Se si indugia abbastanza a lungo su una simile fotografia, si capisce come anche qui gli estremi si tocchino: una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nella immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano [quello della morte della donna ritratta] si annida ancora oggi il futuro. [38]
Per Barthes e Benjamin la folgorazione — termine comune a entrambi [39] — sospende il senso del tempo, apre l’immagine verso un futuro anodino, ma soprattutto espone l’oggetto ritratto ad una presenza che ha qualcosa di struggentemente spettrale: dinanzi ad essa noi sappiamo che la vita dei soggetti è come rappresa in una effigie che contiene contratta in sé tutta la loro storia passata e futura rispetto al momento dello scatto, eppure l’immagine è restia ad esplicitare questa storia, aprendo uno spazio ottico in cui il pensiero va alla deriva fuori dai cardini del tempo.

Inoltre va notato che la coppia Punctum-Studium non è fine a se stessa, ma viene inserita per un fine preciso: far emergere i quattro connotati specifici della immagine fotografica colta quale elemento di una Mathesis Singularis. Tali connotati sono [40]:
1. La rarità/unicità del referente.

2. La numinosità dell’oggetto ritratto, ovvero la sua capacità evocativa, la sua forza magnetica in grado di attrarre l’occhio in un campo di riflessione ad altissimo tasso di irrealizzazione.

3. La prodezza dell’immagine, la quale — come ad esempio negli scatti della goccia di latte di Edgerton — mostra un reale scomposto nei sue dinamiche sfuggenti e segrete.

4. Le contorsioni della tecnica.
Qui troviamo altri due punti di contatto con Benjamin. Innanzitutto gli ultimi due caratteri richiamano direttamente le considerazioni svolte dal berlinese sulle potenzialità di smontaggio ontologico di cui la tecnica foto-cinematografica ha dato prova fin dai suoi primordi; ma, oltre a ciò, qui il referente, che nella dimensione linguistica era del tutto appiattito sulle logiche di combinazione e selezione dei due assi della langue, si carica qui di una energia ostinatamente sovversiva. Nell’immagine infatti registriamo la reazione, la resistenza, l’eversione di una porzione di realtà che inizia a secernere intorno a sé un sottile ma tenace campo di tensioni. Le relazioni tra i quattro connotati delineano una fisionomia del dato ritratto che conduce l’armatura concettuale messa in opera a culminare in una inedita fenomenologia del Punctum o, per dirlo con maggior precisione, in una flessibilissima teoria del dettaglio colto nella sua indole dissociativa di coefficiente a-refenziale. Ecco come Barthes espone questo passaggio:
il dettaglio si impone su tutta la mia lettura: è una mutazione viva del mio interesse. Una folgorazione. Attraverso il segno di qualcosa, la foto non è più qualsiasi. Tale qualcosa ha fatto tilt, ha provocato in me una piccola scossa, un satori, il passaggio di un vuoto [...]. Astuzia del vocabolario: si dice sviluppare una foto, ma ciò che l’azione chimica sviluppa è il non-sviluppabile, una essenza (di ferita), ciò che non può trasformarsi, ma solo ripetersi sotto le forme dell’insistenza (dello sguardo insistente). Ciò avvicina la Fotografia (certe fotografie) allo haiku. Poiché anche i riferimenti di un haiku sono non-sviluppabili: tutto è dato, senza provocare la voglia o anche la possibilità di una espansione retorica. In entrambi i casi di potrebbe, si dovrebbe parlare di una immobilità viva [41].
Ancora una volta siamo ad un passo da Benjamin: la fotografia è il campo di applicazione per ciò che il pensatore berlinese aveva già chiamato nel grande trattato degli anni ’20 «elaborazione micrologica» [42] e che nello studio del ’37 dedicato a Eduard Fuchs individua come quella pratica di pensiero che da una parte riesce a forgiare una coscienza del presente che faccia deflagrare la continuità della storia [43] mentre dall’altra fornisce una alternativa speculativa alle insopprimibili aporie della teoria. [44]

Ma Barthes forse a questo punto si spinge oltre ed enuclea l’ultimo paradosso della fotografia: l’eidos di queste immagini consiste nell’allestimento di uno spazio di manifestazione in cui ciò che è chiamato a rappresentarvisi si riassorbe senza resto in un vuoto improvviso e insituabile. Strana fenomenologia allora, quella di Barthes, che indaga e interroga il fenomeno a partire dal momento in cui questo ha già cessato di apparire. Evidentemente aveva ragione Adorno nel dire che «niente ha tanta espressione quanto ciò che si estingue» [45]


[1] R. Tiedemann, Études sur la philosophie de Walter Benjamin, trad. fr. di R. Rochlitz, Ed. du Sud, 1987, pp. 63-64, 124-125.
[2] Ivi, p. 164-165. Corsivi nostri. Cfr. inoltre R. Tiedemann, Dialektik im Stillstand. Versuche zum Spätwerk Walter Benjamins, Suhrkamp, Frankfurt 1983, pp. 101-106.
[3] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1980, p. 179 n.
[4] OC II, p. 493.
[5] Alfieri delle arti diottriche sono Diderot, Ejzenštejn e Brecht, cfr. R. Barthes, OC IV, pp. 456.
[6] R. Barthes, OC V, p. 620. Traduzione nostra.
[7] Ivi, p. 885.
[8] W. Benjamin, op. cit, pp. 208-213.
[9] Ivi, p. 178. Il passo tra caporali proviene dal trattato di Menestrier.
[10] Ivi, p. 48.
[11] Ivi, pp. 212-213 e 187. Corsivi nostri.
[12] Ivi, p. 209.
[13] Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed. it. a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1977, 207. Per un’analisi più approfondita su questi ed altri aspetti del pensiero di Benjamin cfr. soprattutto H. H. Holz, Prismatisches Denken, in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt, 1968, pp. 62-110.
[14] Va detto subito che l’immagine ha un ruolo più che rilevante anche in un altro testo di poco posteriore a questi due e che rappresenta per molti studiosi il vero testamento spirituale del filosofo berlinese, ovvero le Tesi di filosofia della storia. Un’analisi di quest’opera tuttavia ci porterebbe ora troppo lontano rispetto all’oggetto del nostro studio.
[15] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 1987, p. 24. Da ora in nota abbreviata con ORT. Per un’analisi approfondita della concezione critico-gnoseologica di Benjamin cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, 1982.
[16] Th. W. Adorno, Teoria..., p. 214.
[17] ORT, p. 26.
[18] W. Benjamin, Il dramma barocco..., p. 139.
[19] Su questo soprattutto F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Ed. Riuniti, Roma, 1980 e F. Masini, Il travaglio del disumano, Bibliopolis, Napoli 1982.
[20] Ivi, p. 30.
[21] Va notata qui la estrema lucidità di Benjamin nell’affrontare il cinema, rispetto alla sorprendente e forse non sufficientemente ponderata chiusura che ad esso opporranno Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1971, passim.
[22] Per ovvi motivi non possiamo qui dilungarci sulla tecnica del montaggio, per questo rimandiamo alla precisa caratterizzazione che ne dà Adorno, cfr. Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 260-263.
[23] ORT, p. 41.
[24] Della rilevanza della scuola sovietica di regia per la stesura di queste note Benjamin renderà atto nella Piccola storia della fotografia, cfr. ORT, p. 76. Sebbene non vi si citi mai Benjamin, per un ulteriore approfondimento di questi aspetti cfr. J. Rancière, Aisthesis. Scènes du régime esthétique de l’art>, Galilée, Paris 2011, pp. 213-217.
[25] Ibid. Verrebbe da chiedersi: inconsciamente da chi? Dall’uomo stesso, dalle pressioni storico-sociali o dalla configurazione precostituita della materia che costringe la percezione umana a seguire le proprie articolazioni minute e riposte? In quest’ultimo caso non è ravvisabile una straordinaria linea di convergenza con i principi della sintesi passiva messi un decennio prima circa da Husserl?
[26] Ivi, p. 38. Corsivi nostri.
[27] Mentre nel saggio del ’36 tecnica e magia sono valori opposti, qui stranamente si allineano e partecipano della stessa forza rivelativa.
[28] ORT, p. 63.
[29] Oltre alle battute iniziali de
La chambre claire, rimandiamo per quanto concerne queste osservazioni all’ultima parte della Lezione inaugurale di insediamento al Collège de France tenuta nel 1977, R. Barthes, OC V, p. 445-446.
[30] Ivi, p. 798.
[31] Ivi, p. 799.
[32] «Comme une opération chirurgicale», ivi, p. 798.
[33] Ivi, 795.
[34] Ivi, pp. 804-809.
[35] Ci limitiamo qui a evocarne solo alcuni: Cahiers de la Photographie, Roland Barthes et la photo, Contrejour, Paris 1990. N-B Barbe, Roland Barthes et la théorie esthétique, Bès Ed. Montzeuil 2001; N. Magali, Roland Barthes contemporain, Max Milo, Paris 2015. J-C Milner, Les pas philosophique de Roland Barthes, Verdier, Paris 2003.
[36] È Barthes stesso a chiamarla così, cfr. ivi, p. 805.
[37] Ivi, p. 804.
[38] ORT, p. 62. Corsivi nostri.
[39] OC V, p. 828.
[40] Ivi, p. 814.
[41] Ivi, pp. 828. Traduzione nostra.
[42] W. Benjamin, Il dramma Barocco..., p. 5.
[43] ORT, p. 83.
[44] Ivi, p. 84.
[45] Th. W. Adorno, Teoria..., p. 135.




K. Blossfeldt, da Urformen der Natur

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